La foresta incantata

         

-Navi, palazzi, castelli, cattedrali? Ma dove? - Mi domanderai ancora.
Nelle grandi città d’Italia e d’Europa: ti sembrerà incredibile, ma il legname di Camaldoli finiva addirittura nei cantieri navali di Sua Maestà Britannica, in Inghilterra. Joseph Forsyth, un viaggiatore inglese che visita Camaldoli nel 1802 questo annota nei sui appunti: “Le piene invernali dell’Arno convogliano tronchi maestosi che vengono raccolti a Livorno dove gli Inglesi hanno pagato somme enormi alla Chiesa cattolica, nel corso degli ultimi due anni, per l’acquisto di legname che consentisse loro di combattere le loro battaglie”.Se pensi che la famosa battaglia di Trafalgar tra la flotta inglese del celeberrimo ammiraglio Nelson e la francese è di tre anni dopo (1805), possiamo dire che gli alberi maestri di alcune di quelle navi da guerra erano venuti da qui. Del resto ci volevano alberi veramente sani, alti e robusti per realizzare alberi maestri di 40-50 metri! Se passeggi per la foresta puoi forse immaginare le avventure che hanno vissuto questi alberi.
Altri erano avviati a ruoli più pacifici: pensa che la cattedrale di Firenze possedeva un pezzo di foresta per le necessità di quell’enorme edificio.



E anche le chiese di Roma si servivano di foreste non lontane: a monte di Pieve Santo Stefano c’è Bocca Trabaria. “Trabaria” è un toponimo che ci dice che da qui scendevano nel Tevere “trabes”, cioè travi, per Roma, che è proprio sul Tevere come Pieve Santo Stefano. Avrai capito che i fiumi erano come le autostrade e le ferrovie di oggi: il trasporto costava poco, visto che ci pensava l’acqua. Ma tanta era la fatica di boscaioli e “foderatori”, come si chiamavano coloro che accompagnavano i tronchi nella loro discesa lungo il fiume. Leggiamo insieme quanto ci dice un “turista” che ha vistato le foreste casentinesi nel 1879, Antonio Bartolini: “Prima che que' legni, i quali hanno spesso smisurate dimensioni, siano condotti ad una via alquanto battuta, vi è l'opera più faticosa di smacchiarli, cioè di (toglierli di) mezzo alla macchia, ove si atterrano a colpi di accetta, e trasportarli ad una strada men disagiata, che chiaman treggiaia*. A ciò si adoprano dieci, quindici ed anche venti paia di bovi, che conducono si fatti legni in luogo, donde sia poi molto più facile strascinarli. Si fanno lì per lì a forza di zappa passi meno disagevoli e sentieruzzi; si sottopongono rulli alla trave, si giuoca di manovelle, si costringono i bovi ad inerpicarsi per erte precipitose; si cangia di tratto in tratto di direzione; spesso le diverse forze, perché non operano tutte ad un tempo stesso, riescono inutili, non è raro il caso che schiantandosi per soverchia tensione o attrito il robusto canapo, che riuniva le forze di quelle povere bestie, una parte di esse siano trascinate e travolte dal peso del legno che precipita indietro". Il tronco veniva abbattuto con grandi seghe, accette, cunei. Poi "sramato" e sezionato in lunghezze utili, legato ai buoi e trascinato per le bordonaie: vie di bosco delimitate da pali infissi (bordoni). Arrivati a valle i tronchi venivano messi in acqua nei “porti” sull’Arno (rimangono oggi i toponimi “Porto” a Poppie e a Pratovecchio), legati assieme in “foderi” (zattere lunghe e strette) e fatti fluitare* dai foderatori fino a Firenze, Pisa e Livorno.
A Firenze erano utilizzati per i cantieri edilizi, a Pisa e Liverno per quelli navali, o venivano venduti a nazioni, quali l’Inghilterra, che non avevano più foreste d’alto fusto. Ovviamente gli sforzi erano enormi, e particolarmente rischioso era il lavoro dei foderatori, che spesso dovevano districare dei veri e propri ingorghi di tronchi là dove il letto dell’Arno era più stretto.



<--------Pagina precedente                                                                                                                                             Pagina seguente ------>